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Il rischio delle professioni d’aiuto
La sindrome da Burnout
Le professioni d’aiuto sono un settore lavorativo molto delicato. Queste riguardano  i medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, insegnanti; ossia tutti coloro che svolgono un’attività a stretto contatto con il prossimo e in cui l’impatto e il coinvolgimento emotivo sono costantemente elevati. Questo tipo di coinvolgimento si può sviluppare anche all’interno delle famiglie, dove esistono anziani e  disabili che necessitano di cure ed attenzione costante.

Il termine, di origini inglese, significa infatti, “bruciato”, “scoppiato”, proprio ad indicare, metaforicamente, la situazione di esaurimento e deterioramento delle capacità individuali in ambito lavorativo.

Ci sono effetti del nostro corpo, delle risposte bene precise, che ci devono allertare.

La sindrome produce una stanchezza cronica, un senso di affaticamento, sia a livello fisico che psicologico. Il soggetto tende a ripiegarsi su se stesso o a scaricare la propria conflittualità su colleghi e amici, intaccando la sfera delle relazioni sociali. Chi opera nelle helping profession, trova le sue aspettative, in alcuni casi, deluse, provando un sentimento di frustrazione che, se prolungato nel tempo, può condurre alla perdita del controllo sui propri impulsi. L’operatore non si sente realizzato nel lavoro e comincia a svalutarsi sul piano professionale e personale, non riesce a frenare tale crollo di fiducia e i nuovi impegni appaiono insostenibili. Per affrontare la sindrome del burnout è consigliabile intervenire sulle variabili che ne sono causa, sia lavorative che personali; per far questo è necessario avvalersi di un supporto psicologico.
Sarebbe buona regola, per prevenire il burnout, organizzare delle riunioni del gruppo di lavoro per riflettere sulle criticità del lavoro, sia autogestiti che supervisionati dallo psicologo.



Dottoressa Melissa Bertozzi
Pedagogista clinica
[professionista disciplinato dalla Legge 4/2013]


La scuola dell’infanzia e i Dsa

Finalmente siamo giunti ad una legge per i bambini con Disturbo dell’apprendimento. La Legge n. 170/2010 e successivi Decreti attuativi ha portato ad una regolamentazione della materia, fornendo un supporto normativo a tutti i ragazzi che rientrano in tale categoria.
Mi piace poco parlare di categorie, quando mi riferisco ai bambini, ma sono convinta che questa normativa ha un fondamento da rispettare e condividere.
La condivisione di cui parlo si riferisce ai vari ambienti che il bambino vive quotidianamente, dalla casa, alla scuola, per passare ai diversi specialisti con le relative terapie.
Seppur la Legge si riferisca alla scuola, penso che ciascun operatore la debba conoscere, se, come fine ultimo, c’è la volontà di garantire un percorso scolastico positivo del bambino.
Si comincia a parlare di disturbi dell’apprendimento, quando si è alla scuola primaria: ma nessuno pensa a tutto quello che il bambino ha vissuto prima di questa nuova esperienza?
Mi riferisco, in questo articolo, alla scuola dell’infanzia, che, pur non essendo obbligatoria, può essere deputata come luogo fondamentale per la prevenzione e l’individuazione delle difficoltà antecedenti allo sviluppo di un disturbo.
Con la nuova Legge, la scuola deve adempiere a precisi obblighi e deve assumere una diversa responsabilità nei confronti di questi bambini. Sappiamo però che non può essere fatta una diagnosi se non dopo l’ingresso alla scuola primaria.
La scuola dell’infanzia, allora?
Le insegnanti possono essere una fonte preziosa per le famiglie, e ottime collaboratrici per le equipe medico scientifiche. Sappiamo che dai tre ai sei anni i bambini fanno delle scoperte e delle conquiste straordinarie in tutti gli ambiti di sviluppo e proprio per questa peculiarità è possibile poter scoprire comportamenti che prospettano future problematiche d’apprendimento.
Un’accurata osservazione può essere indirizzata verso tutte quelle competenze che favoriscono un apprendimento adeguato; mi riferisco alle abilità linguistiche, cognitive e percettivo-motorie.
Cosa osservare sulle varie abilità?
Per quanto riguarda il linguaggio è opportuno osservare quanto il bambino comprende, quanto si esprime verbalmente e quanto il linguaggio sia utilizzato in maniera funzionale. (esempio: se dico “Voglio la mela!”, la mamma mi dà la mela.)
Le abilità cognitive che si possono osservare sono legate ai processi logico-concettuali e agli aspetti mnemonici e attentivi. Oltre a questo, sono importanti anche le abilità pre-concettuali.
Molti di questi aspetti possono essere osservati, non solo nella pratica rotuinaria, ma utilizzando attività preposte a far emergere queste particolari abilità.
Infine, un altro ramo su cui posare il focus è quello relativo alle abilità percettivo-motorie. In particolare è indispensabile osservare le abilità visuo-spaziali, la coordinazione oculo-manuale e la motricità globale.
Una volta che si sono verificate delle stranezze su questi aspetti, le insegnanti non devono esitare nel chiedere ai genitori un colloquio, impostando una modalità di dialogo attenta anche alla sensibilità di queste figure. Se riusciamo a portare il dialogo su un piano di collaborazione e scambio, i tempi per il recupero sono meno lunghi e, nelle migliori ipotesi, non si arriva alla scuola primaria con molte lacune dei bambini e resistenze da parte della famiglia.

        
Dottoressa Giorgi Simona
Pedagogista clinica
[professionista disciplinato dalla Legge 4/2013]
                                                                                                            

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